Nella moderna teoria del portafoglio, il rischio negli investimenti è stato definito come volatilità del rendimento. Più un asset è volatile, più è rischioso. Per la MPT la gestione del rischio è legata in modo imprescindibile alla variabilità dei rendimenti nel tempo di un investimento.
La volatilità passa dall’analisi di quella che viene chiamata deviazione standard, ossia la media degli scarti al quadrato del rendimento di un investimento rispetto alla media di rendimento su un certo periodo.
Oltre alla deviazione standard abbiamo anche tutta una serie di altri indicatori: risk of loss, shortfall risk, value at risk, calcolo degli indici di Sharpe e di Sortino, tracking error, simulazione Monte Carlo e decine di altre analisi che hanno come fine ultimo quello di quantificare quanto rischioso possa essere un certo investimento.
Analisi di questo tipo, per quanto possono essere utili, non forniscono mai la certezza dell’effettivo rischio di un certo investimento. Servono a stimare i rischi, ma si limitano a misurare la rischiosità delle variabili che conosciamo.
Nella sfera dei rischi però rientrano tre variabili: il noto-noto, il noto-sconosciuto e lo sconosciuto-sconosciuto.
Nassim Taleb, nel suo libro Il Cigno Nero, parla in modo molto approfondito dell’ultimo tipo di variabili e di come queste abbiano impatti non misurabili preventivamente sulla nostra vita.
Il peso dello sconosciuto-sconosciuto nella gestione del rischio
I Cigni Neri sono infatti definiti come quegli eventi inaspettati i cui impatti sono enormi e possono sconvolgere la nostra vita. Nel suo libro, Taleb divide il mondo in Mediocristan ed Estremistan. Il primo è tutto ciò che è misurabile e stimabile con la campana di Gauss, mentre il secondo al contrario non può essere stimato con lo stesso modello.
Se prendo la media delle altezze delle persone in uno stadio di calcio, anche facendo entrare nella popolazione una persona molto alta la media non si scosta particolarmente.
Provate invece a togliere i 10 giorni di rendimenti migliori negli ultimi 50 anni dell’S&P500. Vedrete come il rendimento ad oggi sarebbe circa la metà di quello attuale. Applicando la gaussiana ai rendimenti, anche solo una di queste 10 giornate avrebbe avuto una probabilità di verificarsi infinitesima e invece si è presentata più volte negli ultimi 50 anni.
Non voglio addentrarmi più di tanto in questo tipo di analisi, perché sono molto complesse e non porterebbero alcun tipo di beneficio a noi comuni investitori.
Quello che a noi serve sapere è che l’applicazione eccessiva dei modelli di valutazione del rischio negli investimenti per noi è poco utile e in generale non è perfetta, quindi non ha senso perderci tempo.
Quello che invece ci interessa per la gestione del rischio è la nostra personale tolleranza al rischio.
L’unico assunto veramente valido e che ci sarà utile in ogni situazione (anche per determinare proposte di investimento poco trasparenti) è: maggiore è il rendimento, maggiore è il rischio.
Per determinare la nostra tolleranza al rischio negli investimenti, quindi, dobbiamo valutare due aspetti principali: capacità e volontà di correre rischi.
La capacità di gestione del rischio e di correre rischi
Un 30enne con una buona posizione lavorativa, prospettive di carriera, appartamento di proprietà acquistato dai genitori e nessun figlio avrà una propensione al rischio diversa da un 60enne con 2 figli all’università e che andrà in pensione nel giro di pochi anni.
La capacità di correre rischi quindi dipende dai seguenti fattori:
- età;
- patrimonio netto;
- stipendio;
- prospettive di carriera;
- situazione familiare;
- orizzonte temporale.
Analizzando in combinazione tutti questi aspetti possiamo stimare qual è la nostra capacità di correre rischi. In altre parole, quanto la nostra situazione attuale e prospettica ci consente di esporci ai rischi per provare ad ottenere rendimenti migliori.
Quando siamo agli inizi del nostro percorso lavorativo, non dobbiamo mantenere nessuno fuorché noi stessi, abbiamo buone prospettive di carriera e 30 anni di investimenti davanti, possiamo permetterci di rischiare di più.
Man mano che ci avviciniamo alla pensione, che la nostra situazione familiare muta, che il nostro lavoro non offre più prospettive di miglioramento riduciamo la nostra capacità di prendere dei rischi. Dobbiamo quind ragionare in modo più conservativo.
Stabilire quindi la nostra capacità di correre rischi è relativamente semplice. Diverso è analizzare la nostra volontà di correre rischi.
La volontà di correre rischi nella gestione del rischio
La volontà di prenderci dei rischi negli investimenti passa per forza di cose dall’analizzare la nostra attitudine al rischio e da quanto siamo a nostro agio con variazioni importanti del nostro portafoglio d’investimento.
Potremmo quindi essere comunque a nostro agio, pur essendo in giovane età, a prenderci rischi più bassi, perché le fluttuazioni di mercato non ci fanno dormire la notte.
Ho amici che sono a loro agio stando esposti 100% su azionario. Io, invece, nonostante abbia davanti a me altri 30 prima della pensione, ho bisogno di provare a mediare questo rischio e in portafoglio cerco di non superare un 60% di azionario perché so che andrei in ansia con percentuali superiori, che mi espongono a ribassi più importanti. Per far ciò sono disposto ad accettare rendimenti minori.
La volontà di correre rischi quindi richiede che conosciamo noi stessi e la nostra attitudine a sopportare momenti di ansia e questo è un lavoro molto più difficile da fare, rispetto al capire la nostra capacità di prendere rischi.
Esistono comunque delle azioni che possiamo intraprendere per ridurre il rischio negli investimenti.
Cosa è necessario fare per ridurre i rischi
Il primo passo che possiamo fare per ridurre i rischi è automatizzare il processo. Pianificare i nostri obiettivi e le azioni da intraprendere per arrivarci e impostare il pilota automatico. Questo riduce notevolmente lo stress emotivo e ci mette al riparo da eventuali analisi “emotive” last-minute che possono minare quanto pianificato.
Il secondo passo da mettere in atto è lavorare sulla nostra asset allocation. Lavorare su un portafoglio a lungo termine che abbia al suo interno una serie di strumenti il più possibile de-correlati tra loro atti a proteggere il nostro capitale in tutte le fasi di mercato e che sia opportunamente diversificato (in tipologia di asset, in valuta e geograficamente) ci protegge da ribassi importanti su singole asset class. Inoltre, ribilanciare annualmente il portafoglio e riportarlo alle percentuali iniziali è un’altra regola valida per mantenere l’esposizione al rischio così come l’abbiamo teorizzato.
Il terzo passo è quello di mantenere le cose il più semplice possibile. Per diversificare geograficamente possiamo acquistare indici azionari di più paesi oppure un world aggregate. Per quanto possa essere più gestibile la prima ipotesi (possiamo modificare le percentuali a nostro piacimento), la seconda offre molta più semplicità e ci consente di ribilanciare con molta più facilità, lasciando fare al sottostante il lavoro di ribilanciamento tra aree geografiche per capitalizzazione di mercato.
L’ultimo passo, ma forse è il più importante, è risparmiare di più. Risparmiare di più significa investire di più e far lavorare di più l’interesse composto. Quindi il risparmio è inversamente proporzionale al rischio di non raggiungere gli obiettivi prefissati.
In un mondo di incertezze, avere la certezza di non poter conoscere l’andamento in anticipo è un passo importante e prima lo accetterete e più vicino sarà il raggiungimento degli obiettivi che vi siete prefissati.
Grazie per la lettura.
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